Da quando ci occupiamo di inclusione digitale ci rendiamo sempre più conto di quanto la centralità delle persone sia un aspetto fondamentale dell’innovazione digitale.

Proviamo a fare un ragionamento partendo da alcuni dati sparsi.

  • 4 persone su 10 in Italia non usano Internet.
  • Mark Zuckerberg ha scritto tempo fa sul suo profilo Facebook che negli Stati Uniti ci sono 500.000 posizioni lavorative disponibili nel settore IT. Ma le università producono soltanto 50.000 laureati in scienze informatiche all’anno.
  • Neelie Kroes, ex-commissario europeo per l’agenda digitale, ha dichiarato che “entro il 2020 si creeranno circa 900.000 posti di lavoro scoperti in Europa in ambito digitale”, a causa della mancanza di preparazione dei giovani in materia.
  • Esteban Bullrich, ministro argentino dell’educazione, ha dichiarato che i bambini oggi possono aspettarsi di cambiare lavoro almeno 7 volte nel corso della loro vita – e 5 di queste professioni ancora non esistono.

Cosa serve per realizzare l’inclusione digitale?

Questi dati ci dicono che siamo immersi in una evoluzione sociale ed economica di cui non vediamo i confini e di cui mancano punti di riferimento precisi. Ma ci dicono anche che i mutamenti tecnologici sono più veloci delle persone e rischiamo di non essere in grado di sfruttare al meglio tutte le opportunità che sono insite in questa evoluzione.

E’ facile parlare di innovazione o acclamare qualche novità tecnologica. Ma se non mettiamo al centro le persone con i loro bisogni, perdiamo di vista l’obiettivo: abbiamo gli strumenti ma non sappiamo utilizzarli. Per innescare questo processo dunque occorre lavorare sull’inclusione digitale a più livelli. Ci sono tre ambiti fondamentali:

  • la scuola
  • gli adulti
  • le donne

Il ruolo della scuola

Da tempo si parla di portare coding e making nelle scuole. L’introduzione della programmazione consente non solo di acquisire nuove competenze tecniche ma anche nuove competenze cognitive su come affrontare e risolvere i problemi. Così come il making è l’evoluzione dell’homo faber dove creatività, tecnologia e manualità si incontrano.

Questi strumenti didattici hanno anche l’utilità di aiutare a combattere il bullismo. Favoriscono infatti la collaborazione e l’interazione fra pari e consentono di includere e mettere sullo stesso piano i bambini con disabilità, abbattendo qualsiasi barriera.

Cosa succede agli adulti?

Poi dobbiamo occuparci degli adulti. C’è infatti un problema di trasmissione del sapere che non passa più da una generazione a quella successiva. L’avvento del digitale ha spezzato questo legame: siamo in una Terra di Mezzo. C’è un Prima e un Dopo Internet e fior di generazioni sono proprio in mezzo a queste due ere. Molti adulti sono in bilico fra i due mondi, testimoni oculari di un mondo non connesso, in cui per cercare le informazioni dovevi spostarti fisicamente, per esempio per andare in biblioteca a consultare volumi per una ricerca. Ma è un mondo che sta evolvendo sotto i nostri occhi. Rischiamo di lasciare indietro la grande parte della fascia adulta e perdere anche competenze ancora utili.

Non possiamo quindi rinunciare a portare con noi questa parte della popolazione. Occorrono percorsi di formazione e facilitazione se vogliamo che le persone utilizzino sempre più servizi smaterializzati. Occorre incoraggiare e facilitare l’utilizzo degli strumenti digitali. Ma soprattutto occorre puntare alle nuove professionalità, tenendo presente che il mercato del lavoro sta cambiando le modalità di selezione.

I benefici dell’uguaglianza di genere

Infine occuparsi del digital divide di genere significa generare benefici a tanti livelli.

Nella ricerca “Getting to Equal” di Accenture emerge che la cosiddetta Digital Fluency è un accelerante economico. Lo studio mette in evidenza che le competenze digitali aiutano il progresso verso l’uguaglianza sul posto di lavoro. Consentono una migliore gestione del tempo e della produttività, creando opportunità per le donne imprenditrici e per quelle che stanno considerando o hanno la necessità di ritornare a lavorare.

“Se i governi e le imprese raddoppiassero il ritmo con cui le donne diventano digitalizzate, potremmo raggiungere la parità di genere sul lavoro entro il 2040 nei paesi sviluppati e entro il 2060 nei paesi in via di sviluppo”.

Concludendo, se mettiamo al centro la persona con i suoi bisogni possiamo innescare un reale cambiamento nella nostra quotidianità. Ma se non mettiamo al centro la persona, cioè se noi non siamo in grado di sfruttare le potenzialità che abbiamo a disposizione, non andiamo da nessuna parte. Per questo l’uomo deve essere al centro del processo, tra l’innovazione sociale ed economica e gli strumenti ICT, un processo che deve essere bottom-up. Le persone possono e devono essere protagoniste dell’innovazione.